Nel 2015 Save the Children ha commissionato un’interessantissima ricerca intitolata “ I nativi digitali conoscono davvero il loro ambiente? “, effettuata da Ipsos su un campione di ragazze e ragazzi tra i 12 e i 17 anni per un totale di 1003 adolescenti selezionati in base a sesso, età ed area geografica.
I risultati sono a dire poco allarmanti.
- il 46% di tutti gli intervistati ha dichiarato che lui stesso, un un/a amico/a, hanno scoperto che la persona incontrata e conosciuta in rete non era realmente quella che diceva di essere;
- il 35% degli intervistati ha riconosciuto l’esistenza, anche frequente, di atti di cyberbullismo;
- di questi, ben il 9% ha ammesso di averne subiti personalmente;
L’aspetto anche peggiore di questo mondo sommerso di delinquenza digitale è rappresentato dalla dispercezione che i ragazzi ne hanno e dalle contromisure di sicurezza di cui si dichiarano consapevoli:
- il 38% dei ragazzi non ritiene che le molestie inoltrate e pervenute per mezzo di internet o social app rappresentino una minaccia concreta nella vita reale;
- soltanto il 59% dei ragazzi dichiara di conoscere l’esistenza e l’utilizzo della funzione “segnala abuso” presente sui social, percentuale che scende al 53% nella fascia d’età più delicata tra i 12 e i 13 anni.
Lo studio citato non ha affrontato il tema della consapevolezza delle conseguenze legali delle propria condotta social, ed è un peccato.
Un dato però, tra quelli citati, risulta parecchio preoccupante: il 38% dei ragazzi non percepisce come concrete le minacce e le molestie inoltrate e pervenute via cellulare/mail/internet.
Questo significa, prima di tutto, che una larga fetta della popolazione di adolescenti italiani non ha una corretta educazione civica, non conosce l’esistenza ed il significato dei principali reati contro la persona e non ne riconosce la manifestazione digitale.
Il quadro che ne viene fuori è allarmante: se idealmente dividessimo la popolazione adolescenziale in buoni e cattivi digitali, avremmo come risultato che i cattivi non conoscono le conseguenze legali delle proprie azioni; mentre i buoni non sanno come tutelarsi di fronti alla manifestazione di tali cattive condotte.
Ne sono un chiaro esempio i molteplici casi di sexting che coinvolgono adolescenti: un numero crescente di ragazze che, ingenuamente e fidandosi, cedono alla richiesta del fidanzatino di inviare immagini o video osé, che vengono poi inoltrate da costui ad una quantità indeterminata ed indeterminabile di soggetti con conseguente diffusione incontrollata.
Accanto alla condotta criminosa di un soggetto si pone quella connivente di altri che – a seconda del tipo di reato commesso – intervengono col proprio comportamento ad arricchirlo e propagarne le conseguenze in un gruppo più o meno folto di altri individui che, a loro volta, vi assistono inermi, quasi divertiti.
E così possiamo avere un soggetto alfa che picchia una vittima, altri che lo riprendono con un telefonino e poi fanno circolare le immagini in una comunità più o meno ristretta di altri soggetti, per mezzo delle social app del gruppo o addirittura pubblicandone il video su Facebook. In quest’ultimo caso, alla potenza di fuoco del network, che rende il contenuto potenzialmente disponibile ad una quantità illimitata di soggetti, si sommano le conseguenze negative dei like e dei commenti che possono esservi apposti dagli utenti raggiunti.
Tutto ciò integra gli estremi di uno o più reati gravissimi, la cui responsabilità è imputabile anche soltanto a chi vi abbia apposto un “like”.
Tuttavia i ragazzi non ne sono consapevoli. Non percepiscono l’esistenza di un reato nè la propria responsabilità a riguardo.
Quando interrogati, spesso emerge chiaramente che neppure i loro genitori apprezzano effettivamente l’esistenza di uno o più reati e di una responsabilità legale a loro stessi ascrivibile in merito.
Ed è su questo che è necessario intervenire.
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