3 MARZO – CORSO DI ARCHEOLOGIA
E’ iniziato un nuovo viaggio nel tempo, alla scoperta dei popoli che abitarono la Sardegna dal neolitico antico all’età medievale.
Un viaggio in sei tappe, coordinato dal Dott. Stefano Giuliani (direttore del Museo Archeologico Nazionale di Nuoro) che si avvarrà della collaborazione di archeologi e specialisti delle varie epoche per fare il punto sullo stato della ricerca in Sardegna e sulle evidenze emerse e documentate dagli ultimi scavi.
Un viaggio dove la molteplicità delle voci ricomporrà il quadro di un’isola, crocevia non solo di scambi economici, ma anche di relazioni culturali e di alleanze tra popoli e civiltà del Mediterraneo.
Un viaggio per fare chiarezza sulla valenza scientifica di concetti come colonizzazione, conquista, dominazione applicati alla protostoria della Sardegna.
Un viaggio, infine, per sfatare il mito che l’identità sarda sia da identificarsi quasi esclusivamente con la civiltà nuragica.
Ogni gruppo umano che vive in un determinato spazio e in un tempo dato, infatti, non può che essere il risultato genetico, culturale e sociale di tutto ciò che è avvenuto prima.
Siamo gli abitanti di una terra dove si sono svolte vicende e si sono succeduti, intrecciandosi e stratificandosi, vari popoli; siamo i depositari del patrimonio culturale che essi ci hanno lasciato e che abbiamo il compito di tutelare e tramandare.
Questo è il senso del nostro viaggio.
4 MARZO – QUATTRO CHIACCHIERE CON FIOLOMENA CALZEDDA
Il commercio equo e solidale: una proposta di giustizia
L’incontro con la Dott.ssa Calzedda, pediatra, attivamente impegnata nel sociale con Migrantes e con la Bottega del Sud equo, ci ha permesso di fare alcune riflessioni sulle ricadute che piccoli segni della nostra quotidianità, come bere una tazzina di caffè o mangiare una tavoletta di cioccolato fondente, producono a livello globale. Quello che per noi è un gesto di piacere che soddisfa il nostro gusto, in diverse parti del mondo è fonte di sfruttamento per molti e di arricchimento per pochi.
La globalizzazione economica ha prodotto soprattutto delocalizzazione e impoverimento delle comunità e delle economie locali; ha espropriato i piccoli coltivatori delle loro terre, ha imposto con le multinazionali l’agricoltura intensiva, ha aumentato le disuguaglianze e ha tolto dignità al lavoro umano compensato con salari iniqui.
L’espansione dell’economia capitalistica ha creato un mercato unico delle merci e del lavoro e ha fatto esplodere il capitalismo finanziario che dirige i capitali dove le opportunità di profitti speculativi sono maggiori. Spesso le merci che arrivano dal Sud del mondo sono il prodotto del lavoro schiavistico, dello sfruttamento, a bassi costi, del lavoro femminile e minorile.
3 miliardi di indigenti (il 43% della popolazione mondiale) vivono con tre dollari al giorno, mentre la ricchezza continua ad essere concentrata nelle mani di pochi: l’1% della popolazione mondiale si divide il 50,8% della ricchezza.
La Dott.ssa Calzedda ha così sintetizzato le cause della povertà nel mondo:
- Ingiusta distribuzione della terra
- Bassi salari
- Disoccupazione
- Uso distorto delle risorse pubbliche
- Grande instabilità politica
- Investimenti negli armamenti piuttosto che in educazione ed istruzione
In che modo noi possiamo diventare agenti di cambiamento?
Chiedendoci prima di tutto che cosa c’è dietro un chicco di caffè, da dove provengono gli alimenti che consumiamo e chi ha lavorato per produrli.
La relatrice ha citato come esempio significativo la filiera del caffè dalla piantagione al mercato.
I maggiori produttori sono Brasile, Vietnam e Colombia. La pianta, coltivata in determinate condizioni climatiche, entra in produzione dopo 5 anni dalla semina, al raccolto, fatto manualmente, provvedono i bambini. A livello economico è la merce più scambiata dopo i prodotti petroliferi ed è quotata in Borsa. Il mercato è in mano alle multinazionali che stabiliscono il prezzo del caffè sulla base delle variazioni climatiche, di fattori geopolitici, del prezzo del petrolio , del valore del dollaro: il 3% va al contadino, il 10% ad altri protagonisti del Sud del mondo, il restante 87% alle multinazionali.
Per interrompere questa catena iniqua, continua la Dott.ssa Calzedda, dovremmo esercitare nei consumi la nostra capacità di scelta, per trasformarci da consumatori in consum-attori e artefici del cambiamento, che agiscono in modo equo, consapevoli che ogni acquisto genera un impatto diretto e indiretto sulla persona e sul pianeta.
Scegliere un caffè “corretto”, che rende al contadino il giusto compenso per il suo lavoro, che mette al centro la persona e la comunità che produce, che crea valore e lo distribuisce, generando un impatto positivo per tutti: questa è la proposta di cambiamento e di giustizia di SUD Equo.
Dietro il caffè, il cioccolato, gli oggetti di artigianato venduti dalla Bottega del mondo di via Mereu, come da tutte le botteghe del circuito, c’è il lavoro duro, ma giustamente retribuito, di chi produce, c’è il rispetto della persona e dell’ambiente, c’è la condivisione dei principi etici di Solidarietà, Uguaglianza, Dignità.
11 MARZO – QUATTRO CHIACCHIERE CON Franca Rosa Contu
L’orbace e la seta
“Il vestito argento lilla sarà guarnito di perle: figurati lo scintillio; ti offuscherò addirittura, a meno che anche tu non ti metta le spalline e quella terribile sciabola di cui ho tanta paura”.
Con queste parole Grazia Deledda descriveva in una lettera a Palmiro Madesani, pochi giorni prima delle nozze, il suo abito nuziale.
Da queste parole e da una vecchia foto, conservata negli archivi ISRE, copia sbiadita di un piccolo corteo nuziale, è partita nel 2021 un’attenta e documentata ricerca, coordinata dalla Dott.ssa Contu, già responsabile del settore museale dell’ISRE, volta a ricostruire l’abito da sposa indossato dalla scrittrice nuorese l’11 gennaio 1900 in occasione del suo matrimonio con P. Madesani.
Ricostruzione minuziosa che ha richiesto l’opera di specialisti locali per riprodurre stile, modello, tessuti dell’abito, secondo i canoni sartoriali e la moda dell’epoca.
Così parole, immagini, competenze artigianali , creando un dialogo di forme, materie e colori, hanno dato vita e corporeità serica e cangiante all’abito di Grazia, ora esposto nel museo deleddiano.
La Dott.ssa Contu sottolinea: “Non un abito bianco, ma un abito luminoso e lussuoso, completo di guanti di pelle di capretto (acquistati sul mercato antiquario) e cappellino a sancire il nuovo status di donna maritata e di scrittrice affermata. Un autentico passaporto per la nuova destinazione, Roma, e per la nuova vita”.
Franca Rosa Contu ripercorre le fasi essenziali del suo incontro professionale (1987) con il mondo deleddiano, fatto non solo delle opere letterarie, ma di arredi, di oggetti di uso quotidiano, di spazi chiusi e di cortili, di finestre affacciate sulla valle e sul Monte, di porte aperte su case e vicoli che disegnano la geografia del quartiere di S. Pietro in cui la casa museo è ubicata. Racconta del rapporto della scrittrice con la moda del tempo e con i modelli vestimentari, che non amava, della tradizione nuorese.
G. Deledda, che riconosce ed interpreta con intelligenza la funzione sociale del vestiario, ambiva ad abiti borghesi che esprimessero il suo desiderio di cambiamento, sancissero il suo successo letterario e le aprissero le porte della modernità, del mondo delle signore, quelle vere, quelle che portavano il cappello.
A ciò si contrapponevano i modelli vestimentari indossati dalla madre: rappresentazione della sottomissione alla tradizione e all’ambiente chiuso della vita domestica, alla cristallizzazione del ruolo della donna, in una comunità nella quale gli abiti avevano una chiara connotazione simbolica, sociale, economica e culturale.
Grazia viveva sospesa tra una condizione e l’altra.
Anche la casa della scrittrice, casa di confine, continua F. R. Contu, ben rappresenta questa dicotomia: una facciata guardava verso il mondo popolare che veniva incontro a Grazia dalla valle, una facciata prospettava verso la città-paese dove si svolgevano gli scambi commerciali. Lo stradone guardava verso il mare: da una parte l’orbace dall’altra la seta del Continente, al di là del mare.
E dal mare arrivava e si diffondeva, attraverso le riviste, la moda italiana e francese; abiti ispirati alle nuove tendenze entravano nell’abbigliamento tradizionale grazie alle mogli e alle figlie di funzionari statali e commercianti, spesso forestiere e portatrici di un diverso stile vestimentario che promuoveva la cultura dell’apparenza. La moda accendeva desideri e coniugava l’essere con l’apparire.
Era intitolato “L’ultima moda. Messaggero dell’eleganza” il periodico illustrato a cui Grazia Deledda cominciò a collaborare da Nuoro nei primi anni Novanta, a dimostrazione di quanto il tema della moda fosse per lei di grande interesse.
Nella “Rivista delle tradizioni popolari italiane” diretta da Angelo De Gubernatis (1893-1895), la scrittrice, riferendo le caratteristiche vestimentarie delle donne nuoresi, annota:
“ Che uso strano e barbaro è questo: le fanciulle signorili di una certa condizione, o che hanno la madre vestita in costume, non possono portare il cappello. Hanno invece fazzoletti di seta, che sfigurano il volto e il vestito, anche se bellissimo. Andando però a marito possono adornarsi del cappello”…
La tradizione sfigura, l’orbace è un peso , un ostacolo alla modernità.
Matrimonio e cappello sono segno di distinzione sociale, simbolo di un ruolo desiderato che segna il rito di passaggio dallo stato di “rustiche” a quello di “signore”.
Grazia, conclude la Dott.ssa Contu, consapevole delle proprie potenzialità, animata dalla volontà di compiere il suo destino di scrittrice, determinata a realizzare se stessa al di là del mare, ma con le radici ben ramificate nell’isola, in pochi mesi ( ottobre 1899 – marzo 1900 ) va a Cagliari, conosce Madesani, si sposa , si trasferisce a Roma.
L’orbace è la ruvida radice identitaria, la seta il nuovo status, il passaporto per il successo futuro.
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